Gianni Penzo Doria
Come sosteneva Mintzberg, le organizzazioni devono tendere a un equilibrio interno ed esterno rispetto alla tecnostruttura: «Le variabili o gli elementi dell’organizzazione devono essere scelti in modo da raggiungere un’armonia o una coerenza interna, e al contempo anche una coerenza di fondo con la situazione dell’azienda»[1].
In poche parole, bisogna fare il meglio con le risorse (umane, finanziarie, patrimoniali) a disposizione. Tuttavia, il buon manager non deve essere animato da sentimenti estranei a una logica premiale e di riconoscimento del valore individuale delle persone, soprattutto con riferimento al lavoro di gruppo. Può capitare, infatti, che il miglior tecnico sia un trouble-maker e quindi porti il gruppo che dirige lentamente alla deriva sugli obiettivi prefissati e al ripiegamento su di sé.
Non solo. In alcune organizzazioni a me ben note per consulenza professionale, ho assistito al cambio di vertice in un ufficio o in un’area semplicemente per continuità e per fedeltà nel tempo. Si è trattato, in qualche misura, non di premiare chi è capace, ma chi è rimasto più tempo nel medesimo ruolo e quindi ha conseguito una sorta di “diritto di successione” alla direzione di una determinata unità organizzativa.
Non esiste un’età anagrafica per dirigere un ufficio, ma probabilmente il giovane competente e relazionalmente più motivato sarà portato a scemare il proprio impegno di fronte a un capo poco preparato o poco attento ai bisogni dei propri collaboratori.
Esistono capiufficio ai quali avrei potuto spiegare altre 300 volte come si istruisce un fascicolo digitale, senza cavarne un ragno dal buco. Era così che preferivo spiegarlo per la seconda volta ai collaboratori più svegli e per far fare a loro il ruolo di moltiplicatori culturali, per quanto possibile.
Mettere a capo una persona fedele al ruolo e all’istituzione – ma sostanzialmente incompetente – è il tipico esempio di mediocrità caritativa di cui soffrono le organizzazioni pubbliche.
In qualche misura, non si vuole far sopravanzare nella carriera un giovane rispetto a uno meno giovane ma più incompetente, perché i parametri che contano non riguardano essenzialmente il merito. Capita così di affezionarci a una persona soltanto grazie alla frequentazione nel tempo e al fatto di costituire una memoria storica dell’ufficio. Ma questa mediocrità caritativa diventa un boomerang perché ne risente tutta l’organizzazione a livello motivazionale.
In questa sede non vogliamo ripercorrere tutti gli articoli che la stampa, anche non professionale, ha dedicato all’esodo dei giovani dal lavoro pubblico, però si tratta di uno dei nodi centrali che restano in capo al management.
Infatti, le promozioni sul campo devono seguire esclusivamente la logica della capacità, dell’intelligenza emotiva e dell’attitudine a entrare in sintonia con gli altri.
Troppe progressioni economiche orizzontali sono basate più sull’anzianità nel ruolo che sulla tecnica. Si tratta, in generale, di premiare persone “buone”, ma incapaci di uno scatto in avanti, di un abbrivio verso l’innovazione.
Per fortuna, ho partecipato anche a tavoli di contrattazione in cui lo stesso sindacato si rendeva conto dell’impossibilità di continuare a difendere alcune posizioni oggettivamente obsolete.
Infine, la mediocrità caritativa può applicarsi anche alle relazioni interpersonali, sia con riguardo alle amicizie, sia con riguardo alle coppie. Quanti rapporti continuano a trascinarsi nell’aurea mediocritas solo per un senso di carità che non vuole spezzare qualcosa che porterebbe a riconoscere un fallimento? Anche in questo caso, la zona di comfort è pericolosa, come una lima sorda che trascina lentamente verso un baratro emotivo.
Mentre le relazioni pagano questa mancanza di “innovazione personale” sul piano della vita autentica, le organizzazioni, invece, ne risentono sul piano delle performance,. In ogni caso, persistere nella mediocrità caritativa è uno degli errori più masochisti che possiamo commettere. E chi si occupa di umanesimo manageriale (www.umanesimomanageriale.it) non deve cadere nell’errore del pietismo. Il manager umanista deve avere la forza di decidere e di comunicare le ragioni della decisione, e non essere mai caritativo o pietoso, perché il medico pietoso fa la piaga dolorosa.
[1] Henry Mintzberg, La progettazione dell’organizzazione aziendale, Bologna, Il Mulino, 1996
Quanta verita’ e saggezza in questo intervento. Puo’ sembrare a tratti impietoso ma nella PA va proprio così: nell’organizzazione prima la fedelta’…poi il merito! E quanti esempi ho visto, e in vari enti, quasi una prassi purtroppo. E pure la selezione “dei migliori” avviene con questo criterio, basti pensare ai cd. ricambi dei vertici nella sanita’: cambiare tutto per non cambiare nulla, anzi peggiorare i servizi erogati, come ben noto. Avanti tutta allora, con la speranza ci si avvii al cambiamento e nuove leve possano dirsi orgogliose di servire nel pubblico, cioe’ noi tutti…
Ha sicuramente senso assegnare ad un ruolo la persona più adatta ad esso ma spesso questa non coincide con le persone con maggiore anzianità nell’ambito cui il ruolo appartiene; D’altro canto assegnare un ruolo a chi ha minore anzianità in genere ha un effetto estremamente negativo sull’umore di chi lavora da tanto tempo.
Probabilmente nella PA manca uno strumento organizzativo essenziale: chi si occupa di capire esattamente quali skills (soft e hard) bisogna avere per ricoprire un ruolo e, al tempo stesso, affianchi il personale nella individuazione delle capacità realmente possedute per valorizzarle.
Tale misura potrebbe permettere alle persone di capire più facilmente qual è l’ambito adatto in cui crescere recuperando così i futuri “non adatti” ma cmq volenterosi.
Avere personale che si sente supportato nella propria crescita ha una ricaduta estremamente positiva sull’organizzazione.
Purtroppo uno strumento simile nn esiste in ambito personale dove invece è essenziale avere la serenità e il coraggio di accettare che quello che si ha nn è quello in cui ci si riconosce, e trasformare, nel cambiare, un momento a volte doloroso in un momento di crescita.
l’intervento di Gianni Penzo Doria pone (ripropone) un problema (ormai annoso) delle risorse umane nelle P.A. Come programmare, selezionare, dirigere, formare le risorse umane? In particolare come selezionare i vertici, gli apicali, i dirigenti? I un contesto generale dove le attività amministrative non si basano sul principio fondamentale della “semplificazione”, non sono digitalizzate a norma; dove la formazione (e la cultura della formazione) è inesistente; dove la qualità dei servizi non è patrimonio del settore pubblico; dove esiste una forte dicotomia evidente tra dirigenza e personale delle P.A. Finora il PNRR non ha inciso positivamente su questa dicotomia. Le riforme della burocrazia pubblica negli ultimi 30 anni ha interessato elementi marginali. Oggi c’è una occasione di vera riforma (la funzione della dirigenza pubblica oggi, semplificazione, nuovi modelli organizzativi, qualità di servizi, formazione permanente del personale pubblico). E persiste la mediocrità caritativa. La mediocrità caritativa è il peggiore nemico di una riforma: i mediocri vincono sempre perchè restano sempre a galla in quanto nessuno pone seriamente (e lo risolve) il problema della “riforma”. I mediocri sono considerati delle brave persone (e lo sono, ma qui il problema è di tipo professionale), che non pongono problemi, che “bene o male” tirano la carretta.
E vogliamo ancora tirare una carretta (nella logica della mediocrità caritativa) o vogliamo una amministrazione (in tutte le sue articolazioni) in linea con i profondi cambiamenti sociali, economici, tecnologici?
Non sempre anagraficamente più grande significa essere premiata dalla propria PA. Spesso, se metti in luce delle incongruenze, delle incompetenze o semplicemente del menefreghismo, della serie “tanto si è sempre fatto così” ne segue che diventi la/il rompiscatole che viene in modo automatico umanamente escluso/a. E’ vero quanto è scritto nell’articolo ma è comunque una visione parziale del problema.
Non sempre è un problema di età.
Si può riassumere tutto così: solitamente nella PA si individua la persona, e su quella persona si costruisce un ruolo o un incarico.
Spesso questo coincide con la questione anagrafica, ma non sempre.
Per uscire dalla mediocrazia che attanaglia la PA dovremmo cercare di individuare prima i ruoli. Cioè, cosa è strategico per il nostro Ente? Di quali competenze abbiamo davvero bisogno? E solo dopo cercare la persona giusta.
Carino l’esempio delle progressioni orizzontali. Spesso i contratti decentrati e quindi i relativi regolamenti per la progressioni sono scritti al contrario, e cioè : partiamo da un elenco di persona meritevoli della progressione (nel 99% dei casi gente prossima alla pensione) e scriviamo il regolamento in modo da accontentarli tutti. Risultato è che un giovane non vedrà una progressione prima di 20 anni di servizio… se va bene.
Il vero problema è che spesso, quasi sempre, le attribuzioni vengono effettuate per amicizia, parentela, simpatia. Chi lavora tanto a testa bassa e svolge attività di categoria superiore (pur sprovvisto di laurea) viene bypassato, quando si tratta di nomine di posizioni organizzative, da coloro che sono dei fannulloni che si rifiutano sistematicamente di lavorare ma che avendo la laurea (e anche appoggio ai “vertici”) fanno ingiustamente carriera.
Più che di mediocrità caritativa, parlerei di mediocrità politica, perchè ciò che spinge un management di una PA a proporre inadeguate “promozioni” non è un senso di “carità” ma piuttosto il senso politico, … fa parte della mia corrente, fa esattamente quello che gli dico anche se sbagliato, non mi contrasta, non mi discute, non mi …, non mi …..
Questo uso intensivo del “pronome personale” è la linea guida delle decisioni, unitamente all’arroganza della certezza che il “bene dell’Amministrazione” coincide con il “MIO” bene personale. Non esiste innovazione che possa cambiare questo stato di cose, ci possiamo solo convivere, e continuare a parlarne potrà servire solo a ridurre il fenomeno, ed è già qualcosa!
Mi trovo ampiamente in disaccordo con il modello di management qui rappresentato, soprattutto perchè non tiene conto di quell’insieme di abilità e conoscenze che si possono acquisire ESCLUSIVAMENTE con l’esperienza.
E, si badi, al contrario dell’autore non ne faccio minimamente una questione di età anagrafica, ma di anzianità di servizio.
A mio parere questo articolo rappresenta l’ennesimo tentativo interno alla PA di andare a cercare ragione di inefficienza e inefficiacia largamente diffuse in cause esotiche e estratte dalla teoria del management aziendale, Teoria che non si può applicare ad un settore, quello pubblico, in cui incentivi e disincentivi sono bizzarri e distorti.
La PA italiana funzionicchia. E ora di guardare in faccia la realtà: i mali di cui essa soffre dipendono in primis dal fatto che il reclutamento avviene per spinte e amicizie in un numero significativo di casi.
Questo produce l’assunzione di soggetti impreparati ancorché incapaci, e animati dal peggiore senso di impunità rispetto alla loro inettitudine.
Il disincentivo a essere produttivo, generato da questi soggetti nella PA, è istantaneo, devastante e virale.
E il dipendente capace e volenteroso si trova a decidere di essere produttivo per pura scelta di coscienza, ovvero in modo caritativo. Produttività caritativa, altro che mediocrità caritativa.
Non commento sul passaggio concettuale alle relazioni affettive, se non rilevando che è un parallelo molto triste.